
08 Giu Quando il bambino ci sfida, lo fa davvero con intenzione?
Ci hanno detto: il bambino ci sfida e noi ci crediamo!
Da tanti genitori emerge questo tema: “Il bambino mi sfida”, “Lo fa apposta per mettermi alla prova”, “Lo fa apposta per testare la mia reazione”. Come viviamo tutto ciò? Siamo certi di dare a quel loro comportamento la giusta interpretazione?
La sensazione che “il bambino ci sfida” deve essere collegato a un situazione ben precisa. A due anni entra fisiologicamente in una fase critica in cui cerca con tutto se stesso di costruire la sua identità e di manifestarsi come individuo separato dall’adulto.
Come può farlo partendo dagli strumenti che possiede? Riflettiamo:
- non ha ancora un linguaggio articolato,
- non ha capacità metacognitiva,
- l’unico strumento a cui fa affidamento per relazionarsi e conoscere il mondo è il suo corpo (picchia, morde, abbraccia, pesta i piedi, coccola…),
- è immerso in un mondo totalmente fluttuante in cui tutto si basa su “IO,MIO,NO!”.
Come può costruirsi l’identità se non misurandosi con l’adulto? Un adulto che di punto in bianco non lo riconosce più e si ritrova con un bambino che prima era da accudire a un bambino che si infuria se non gli viene concesso di fare tutto da solo.
“La madre che imbocca il bambino senza compiere lo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio, non lo sta educando, lo tratta come un fantoccio. Insegnare a mangiare, a lavarsi, a vestirsi è un lavoro ben più difficile che imboccarlo, lavarlo e vestirlo”. Maria Montessori
Il genitore molto spesso resta tarato sul vecchio schema: quello di provvedere ai bisogni primari del bambino “mangiare, dormire, la cura igienica, etc…” e il bambino, in questo contenitore così stretto, non ci sta più.
Il bambino si sta affacciando al mondo, è sempre più padrone dei suoi movimenti e sta verificando il linguaggio che, benché con poche parole, ha una portata sociale e chiede di esprimersi. Chiede di essere attore e non spettatore della costruzione del suo percorso esistenziale. Fateci caso, tantissime volte i bambini ci dicono “Mamma, guardami!”, “Guarda maestra, guarda!”. Ed è proprio un “guarda me, io esisto, io ci sono io sono competente, io ci sono”.
Il bambino ci sfida? NO, il bambino sta costruendo la sua identità.
Provate a rileggere quest’ultima frase e a ad ascoltare come cambia il sentimento dentro di voi. Se lo leggiamo come sfida allora succede che ci sentiamo minati alla base: scatta la paura, il timore di perdere l’autorità e proiettiamo già tutto all’adolescenza “Se mi fa così a tre anni figurati a quindici, bisogna che lo registri subito.” “Deve capire!”.
Non ci va proprio giù che un esserino così piccolo riesca a farci vacillare nel nostro ruolo di adulti, ci fa una paura tremenda l’idea di non essere rispettati. Ci spaventiamo, non lo riconosciamo più, cerchiamo di riportarlo nei ranghi con un’urlata, un castigo, a volte una sculacciata che giustifichiamo dicendo che non ha mai fatto male a nessuno. Prevale il senso di colpa e la sensazione di essere sguarniti di strumenti e completamente in balia degli eventi.
A quel punto occorre fermarsi. Quando noi siamo in balia delle nostre preoccupazioni e aspettative, il bambino non ce la può fare a procedere con serenità e continuerà a mettere in atto comportamenti per verificare se siamo coerenti (Il no diventa sì?), per accertarsi che lo amiamo incondizionatamente nonostante il suo atteggiamento provocatorio, per sentire se quell’adulto è per lui un porto e un faro o se, come lui, è in balia delle onde.
Alli Beltrame al workshop “Meglio prevenire che sgridare”, ha detto una cosa che mi ha fatto tanto sorridere e che ho trovato estremamente efficace “Ma se gliel’abbiamo ripetuto 1000 volte e non la capisce, non ci viene il dubbio che forse siamo noi a non aver capito qualcosa?” Vi lascio con questa domanda e vi chiedo di provare a guardare sia loro sia voi stessi con un’estrema tenerezza.
Laura Mazzarelli – Pedagogista, insegnante e fondatrice di Educazione Responsabile